Popoli e Tradizioni

Popoli e Tradizioni

L'isola di Selayar, situata all'estremità più meridionale di Sulawesi, è la naturale via di accesso al tranquillo ed isolato Parco Nazionale di Taka Bonerate. Le sue acque pullulano di colorate barriere coralline, spugne giganti, una grande ricchezza di specie ittiche e dugonghi endemici di queste acque, tartarughe e mante. Composto da 21 isole e atolli, Taka Bonerate è il terzo atollo più grande del mondo dopo le Isole Marshall e le Maldive. Prevalentemente coperta da foreste pluviali, Selayar vanta molte spiagge incontaminate di sabbia bianca.



Nel 2015 Wolfgang Widmoser ha solcato queste acque a bordo di una Phinisi, una tradizionale barca a vela Bugis, per visitare le isole dell’arcipelago di Selayar. Durante il suo viaggio, l'artista ha interagito strettamente con gli isolani e intrapreso diversi progetti artistici. Una delle sue principali intenzioni era, secondo le parole di Wolfgang, "di esplorare una realtà poco conosciuta". L'incontro con gli indigeni ha profondamente affascinato Wolfgang, offrendogli inoltre una rara opportunità di osservazione diretta ravvicinata della vita degli abitanti delle isole, in particolare dei Bugis. Per lui era come aver trovato un angolo di paradiso. Vedeva gli isolani come persone di buon cuore che conservavano il loro stile di vita tradizionale intatto, lontano dalla ruggente civiltà moderna. "Non hanno telefoni cellulari. Vivono in armonia con la natura, specialmente con il mare.



In effetti, penso che siano attaccati più al mare che alla terra", disse Wolfgang. Ai suoi occhi gli isolani sembrano una tribù nomade che trova una grande libertà nel mare. Questo viaggio ha dato a Wolfgang un’ottima occasione per realizzare ritratti di persone comuni. Le figure nei ritratti di Wolfgang raccontano qualcosa che supera la fisicità umana dei soggetti e dei loro ambienti circostanti.



Le sue opere vanno oltre il semplicemente dipingere le apparenze degli individui. Piuttosto, le opere rivelano un certo grado di surrealismo. Allargando i volti dei suoi soggetti, dettagliando ogni poro e ruga, e soprattutto evidenziando gli occhi come finestre dell'anima, Wolfgang aggiunge significati straordinari a soggetti altrimenti ordinari.
Nel cuore degli altipiani del Madagascar, a est della cittadina di Ambositra, vivono gli Zafimaniry,un piccolo gruppo etnico di circa 50.000 persone distribuiti in un centinaio di villaggi. Il loro mito fondante vuole che, due secoli or sono o giù di lì, questo gruppo di origini Betsileo si rifugiasse tra le montagne per sfuggire alla deforestazione incipiente e all’avanzata di gruppi etnici più numerosi. Che sia stato per desiderio di boschi intatti oppure di libertà, questa gente ha vissuto praticamente isolata per diverso tempo, su cime di difficile accesso e perennemente avvolte di bruma, praticando una agricoltura di sussistenza a base di riso, mais, patate dolci, taro e manioca.



Grazie alla loro tradizionale simbiosi con il bosco, gli Zafimaniry hanno sviluppato una grandissima abilità nella lavorazione del legno. Quasi tutto, nel loro mondo, viene dalla foresta: le case, interamente di palissandro, sono autentici capolavori di incastro, costruite senza nemmeno un chiodo, completamente smontabili e con porte e finestre finemente scolpite; gli sgabelli su cui siedono sono ricavati da un unico blocco di legno; i grossi contenitori con i quali un tempo andavano a raccogliere il miele selvatico, sono tronchi scavati; i sepolcri famigliari sono pesanti sarcofagi, i più antichi dei quali assemblati con due soli blocchi di un unico tronco. Nella loro vita quotidiana, gli Zafimaniry riconoscono e utilizzano circa 23 tipi di legni diversi, ognuno con una sua precisa funzione.



I paesi Zafimaniry offrono panorami di straordinaria bellezza e sono meta di molti intrepidi turisti, che si avventurano in trekking di uno o più giorni, per visitare quelle piccole meraviglie di palissandro nascoste in mezzo alle montagne. Nonostante il piccolo numero dei suoi rappresentanti, o forse proprio per questo, la civiltà Zafimaniry è stata inclusa, nel 2003, Patrimonio Orale Intangibile dell’Umanità dall’UNESCO. Chiedendo agli intagliatori Zafimaniry il significato dei loro disegni non è raro sentirsi rispondere che non significano nulla ma semplicemente abbelliscono il legno. Forse è tutto quanto resta del sapere ancestrale di tali “segni”, mirabilmente riportati sugli oggetti di uso comune, porte e finestre delle loro case. O forse è solo riservatezza tipicamente Malgascia. Ad un’occhio allenato non possono però sfuggire i riferimenti grafici a modelli che si ritrovano in tutti i luoghi dove la spiritualità ha manifestato forme artistiche e una simbologia di vario genere. Gli Zafimaniry sono dunque da considerarsi appieno nel novero dei popoli che perpetuano la Conoscenza Universalenel mondo.
La deliziosa melcocha è un dolce tipico di vari paesi sudamericani, dove la lavorazione avviene ancora in maniera artigianale; per l Ecuador sono in particolare famose le melchocas create nella città di Baños, nella provincia di Tungurahua. Ogni Paese ha la propria variente, anche se la preparazione di base rimane più o meno la stessa: l ingrediente principale della Melcocha è lo zucchero di canna, disponibile sottoforma di panela, una tavoletta che si ottiene facendo essicare in stampi rettangolari o circolari la melassa ottenuta dopo aver portato ad ebollizione lo zucchero. Le varianti regionali della melcocha includono poi arachidi, vaniglia, cocco, cannella, scorza di limone e vari aromi, semi e essenze. Il processo di lavorazione comincia sciogliendo le panelas di zucchero in un pentolone, ma da qui in poi i passaggi si fanno sempre più complessi e l unica cosa che consente di riuscire nella realizzazione di questa dolcissima preparazione è la grandissima esperienza di questi artigiani del dolce. Bisogna infatti individuare il momento ottimale per togliere dal fuoco il preparato finora ottenuto (simile per consistenza ad un miele abbastanza denso) momento che solo anni di esperienza nel campo consentono di individuare con precisione. Il preparato viene quindi versato su di una superficie piana bagnata e qui lasciato a raffreddare per un tempo che va dai quattro ai sette minuti (anche qui solo l esperienza consente di valutare con precisione quando questa fase è compiuta), abbastanza da trasformare il preparato fluido che avevamo ottenuto in una sorta di pellicola che è però ancora flessibile, e che l artigiano provvederà a rimuovere dalla lastra ripiegandola su sé stessa. Già, perché da questo punto in poi tutto quello che farà la differenza tra questa  palla  di zucchero che abbiamo adesso e la melcocha che andremo a mangiare sono i numerosi  ripiegamenti  che questa subirà, grazie ai quali sarà inglobata aria nel prodotto. Per questa parte del processo l artigiano si aiuterà appendendo il composto zuccheroso ad un legno sporgente e continuerà a tirarlo, torcerlo e ripiegarlo finché questo, grazie all aria incorporata, sarà diventato un composto malleabile da porre negli stampi e ottenere così deliziose caramelle e cioccolatini. Sicuramente il modo migliore per gustare dell autentica melcocha ecuadoregna sarebbe acquistarla in uno dei mercatini locali di Baños, ma se non avete in programma un viaggio in Ecuador nel futuro immediato, potete sempre acquistarla online.
Più di quarantamila dei quasi tre milioni di abitanti di Buenos Aires vivono nelle coloratissime case del quartiere La Boca, sul fiume Riachuelo. Il nome del quartiere, letteralmente la bocca, deriva dal fatto che il quartiere sorga sulla  bocca  del Riachuelo, dove questo si immette nel Rìo de la Plata. Il quartiere si trova a pochi chilometri dal centro di Buenos Aires, e ci si può tranquillamente arrivare tramite la via Defensa, strada che attraversa vari quartieri della città. In epoca coloniale il quartiere non era nient altro che un assembramento di baracche in cui trovavano alloggio gli schiavi africani portati nel nuovo continente, ma fu verso la fine del XIX secolo che La Boca cominciò a diventare il quartiere che è oggi, cioè quando iniziarono ad arrivare gli immigrati italiani e spagnoli, in particolare genovesi. L identità genovese si è sempre sentita molto a La Boca, come testimoniano le curiose vicende che portarono, tra il 1876 e il 1882, alla proclamazione della República Independiente de La Boca, con tanto di atto formale inviato al Re d Italia Umberto I di Savoia. Quella che era cominciata, in clima elettorale, come una battaglia per la gestione autonoma del quartiere e del porto era diventata una lotta per l indipendenza territoriale, che si sedò solo con l intervento del Presidente della Repubblica e dei generali, e che si concluse con l ammainabandiera del vessillo di Genova e alla fine della baldanzosa  repubblica indipendente . Ancora oggi però le origini genovesi non sono state dimenticate dagli abitanti, che si chiamano Xeneizes, ovvero Genovesi, plurale modellato sul castellano del termine dialettale ligure Zeneize. Il quartiere conserva ancora oggi la sua natura di quartiere operaio (e alle volte malfamato, non è infatti sicuro avventurarsi nelle zone più periferiche e povere) ed è estremamente caratteristico, in particolare nella zona del Caminito, la via più conosciuta del quartiere, sempre brulicante di vita. Passeggiando ci si imbatte in continuazione in bancarelle che vendono oggetti di artigianato, artisti di strada e ballerini di tango, e addirittura in partitelle di calcio estemporanee. Le casette colorate sono sicuramente la parte più iconica degli scorci de La Boca, e come abbiamo già visto succedere per questo quartiere, la storia dietro di essi è curiosa e interessante: era infatti usanza per gli immigrati tinteggiare le case con la colorata vernice avanzata dalla pittura delle navi per il trasporto merci che navigavano il fiume Riachuelo. Ma si diceva del calcio, che come si sa in Sudamerica è più una religione che uno sport, e La Boca non fa certo eccezione, anzi. La famosa squadra Boca Juniors prende il nome proprio da questo quartiere infatti, dove ha la sua sede la società sportiva omonima. La popolarissima squadra del Boca, terza squadra al mondo per titoli internazionali vinti, fu qui fondata nel 1905 dagli emigranti genovesi, così come l altra famosa squadra di Buenos Aires, il River Plate, fondata nel 1901. Insieme al calcio, l altra grande passione di Boca è sicuramente il tango, e sebbene, come si diceva, non sia raro vedere ballerini di tango esibirsi per le strade del quartiere, qui si trova anche il centro culturale Usina del Arte, una sala per spettacoli che ospita, oltre a spettacoli teatrali e musicali, il Tango Buenos Aires Festival y Mundial, festival di danza che si propone di preservare la tradizione del tango e di portarla ad una platea internazionale. Il lato culturale di Boca ha infine anche un altro asso nella manica, la Fundación PROA, un museo di arte contemporanea in un edificio storico italiano vicinissimo al Caminito, completamente ristrutturato sulla fine del XIX secolo.


La Costa Rica è un paese dalla tradizione rurale, e benché oggi buona parte della popolazione non lavori più nelle campagne, la cucina rimane radicata in quegli ingredienti semplici della tradizione contadina, in particolare riso e fagioli, che costituiscono la base di molti dei pasti degli abitanti di questo paese.  I piatti più diffusi sono il gallo pinto e il casado, entrambi piatti unici ben bilanciati dal punto di vista nutrizionale, come del resto è tutta l'alimentazione dei ticos (gli abitanti della Costa Rica), che sono famosi per la loro morigeratezza a tavola, dove i pasti includono sempre frutta e verdura, e per lo stile di vita attivo.



Il casado

Il casado è un piatto molto economico che allude fin dal nome – ovvero matrimonio – alla sua natura composita, risultato della felice unione tra ingredienti diversi che però si sposano, è proprio il caso di dirlo, bene tra loro.  Ne esistono diverse varianti, ma il nucleo di base rimangono sempre riso e fagioli, accompagnati o con carne o con pesce, e poi pomodoro e insalata di cavolo e, a volte, una carota, oltre al platano e alla banana che vengono fritti – e prendono il nome di patacones – e hanno un sapore molto gradevole e dolce.  Il platano è un altro cibo che è presente un po'ovunque nella cucina della Costa Rica: somiglia a una grossa banana, ma a differenza di quest'ultima non può essere consumato crudo.







Il gallo pinto

Il gallo pinto somiglia un po'al casado, ma la sua storia è più controversa, sia per quanto riguarda l'origine del nome che la paternità del piatto.  Il termine gallo potrebbe infatti stare ad indicare la tortilla in cui questo veniva servito e consumato, al posto del piatto, oppure rifarsi ad una leggenda secondo la quale un signorotto di San José, in occasione di una festa, affiancò del riso al gallo che non sarebbe bastato a soddisfare tutti i partecipanti.  Secondo altri invece il nome gallo pinto farebbe riferimento ai vari colori presenti nel piatto.  Per quanto riguarda l'origine della pietanza stessa invece, essa è contesa tra Costa Rica e Nicaragua, con entrambi i paesi a rivendicarne l'invenzione e ad avere questo piatto come parte importante della dieta della popolazione. In sostanza si tratta sempre di riso e fagioli cucinati assieme, ma stavolta conditi con una salsa agrodolce simile alla panna acida, e accompagnati da carne o uova fritte strapazzate.  Il piatto viene di solito consumato per colazione.







Altre pietanze tipiche sono spezzatini di patate e carne, le chorredas (tortillas di mais), le empanadas, e le pannocchie arrosto, mentre nelle zone costiere il pesce assume un ruolo più importante nell'alimentazione e la cucina locale si diversifica da quella del resto del paese, con delle specificità proprie e sapori caraibici, con vari tipi di frutta e il cocco e il suo latte a farla da padrone.







La cucina costaricana offre anche una selezione di dessert, forse meno salutari rispetto al resto dell'alimentazione, come il flan, una sorta di creme caramel, o la mazamorra, un budino, e il queque seco, una torta a base di zucchero, farina e burro.  Per le bevande, i ticos amano i frescos, drink analcolici fatti con frutta e acqua o latte; diffusissima sono anche la birra e da ultimo, ma non certo per importanza, il caffè.
In Perù le feste sono una faccenda seria! Probabilmente nessuno sa divertirsi come i peruviani, che organizzano ogni anno circa 3000 feste. Come si può ben immaginare, in questopaese a maggioranza cattolica, dove la religione riveste un ruolo certamente importante nella cultura e nella società, la maggior parte di queste feste sono dedicate ad un qualche santo patrono, ma l eccezionale sincretismo tra religione cristiana e tradizioni precolombiane ha prodotto una tradizione ibrida, dove ricorrenze cattoliche si mescolano agli antichi rituali Inca. In qualsiasi momento dell anno vi troviate in Perù non sarà dunque difficile ritrovarsi nel mezzo di un qualche tipo di festeggiamento, festeggiamento che certo non passerebbe inosservato: il risultato di quel connubio di tradizioni indigene e spiritualità cattolica di derivazione spagnola è spesso un qualcosa di stravagante e inconsueto, quasi estraniante, con celebrazioni colorate e rumorose, altamente scenografiche e incredibilmente coinvolgenti e sicuramente sorprendenti.



Una festa di cui vale la pena parlare è sicuramente la festa della Madonna della Candelora - Fiesta de la Virgen de la Candelaria - che si celebra a Puno, recentemente dichiarata Patrimonio dell Umanità dall UNESCO. A motivare questa investitura, la straordinaria importanza della festa, che è infatti la più grande manifestazione culturale, musicale e religiosa della nazione: le celebrazioni per la Fiesta de la Candelaria possono infatti tranquillamente competere con le più grandi manifestazioni del Sud America (come il carnevale di Rio) per numero di persone coinvolte. La festa ha luogo tutti gli anni a febbraio e, come spesso succede in Perù, si protrae per più giorni, in questo caso per una settimana piena di musica, danze e cibo. Si comincia all inizio del mese: il rituale che apre le celebrazioni è una messa mattutina (all alba) a cui segue una cerimonia di purificazione, mentre il giorno seguente sì procede con una processione in cui la statua della Madonna viene accompagnata per le vie della città da una coloratissima folla nei tradizionali costumi incaici, con musiche e danze festose. Nei giorni successivi il festival continua con due competizioni di danza e musica che vedono sfidarsi partecipanti provenienti da Puno e dai dintorni rurali della città, oltre che a un numero significativo di persone che emigrate da Puno tornano per prendere parte alle festività e riconnettersi alle proprie radici. Il festival si configura così anche come un opportunità per preservare l identità culturale dei gruppi etnici Quechua e Aymara, con le vecchie generazioni che passano alle nuove tutto quel bagaglio di conoscenze e tradizioni relativo alla musica, alla danza e alla realizzazione dei costumi e delle maschere tipici. La festa giungerà poi finalmente al termine con un ultima sfilata e una messa d addio.
La tradizione tessile in Perù ha origini veramente antichissime: grazie al rinvenimento di reperti tessili in vari siti archeologici è infatti possibile datare le prime testimonianze di arte tessile indietro nel tempo fino al 4000/3000 a.C., nel cuore della tradizione Inca. Come dimostra anche l ottimo stato di conservazione dei reperti archeologici, la produzione tessile andina è sempre stata di eccezionale qualità, ma non sempre è stata impiegata per usi moderni come la fabbricazione di abiti, ma piuttosto per usi  narrativi  e comunicativi; con complessi intrecci di fili colorati si potevano infatti tramandare antichi saperi e conoscenze e narrare vere e proprie cosmogonie. Per secoli l arte tessile ha continuato ad essere praticata secondo modalità assolutamente naturali e artigianali. Le pregiatissime lane di alpaca e le altrettanto pregiate qualità di cotone (come il morbidissimo e lucente cotone di Pima) vengono lavorate a mano o con telai meccanici a cintura o a pedale, e tinte esclusivamente con estratti naturali. La qualità delle lavorazioni tessili è innegabile, e nel corso del tempo la tessitura si è affermata come pilastro dell artigianato peruviano. Le comunità rurali ancora mantengono orgogliosamente i propri motivi e colori, e qui la tessitura è una fonte di sostentamento.
Intorno agli anni ‘50, l artigianato peruviano si è trovato in un momento se non di svolta quantomeno di radicale evoluzione. In questo periodo infatti, grazie all interesse di missionari religiosi e a campagne di solidarietà internazionali, l artigianato locale si è affacciato sui mercati internazionali, creando, senza particolari piani di sviluppo ma semplicemente in risposta alla domanda del mercato, prodotti artigianali destinati alla vendita esterna. Ad aumentare, negli anni a venire, la domanda di prodotti artigianali, il boom del turismo, che creò occasioni per facili guadagni per chi si proponeva come  intermediario  in questi scambi commerciali. Questi guadagni erano spesso fatti sulla pelle degli artigiani, sfruttati per un pugno di mosche, e per arginare questo malaffare il governo peruviano creò nel 1982 l organizzazione Allpa per aiutare gli artigiani a commerciare in maniera equa. Gli squilibri economici causati dal boom del turismo sono anche dietro alle vicende del villaggio di Ccaccaccollo, sulla Valle Sacra peruviana. L arrivo di visitatori stranieri incentivò infatti le attività turistiche, con alberghi e ristoranti di lusso che hanno fatto la fortuna di molte città. Ma mentre alcuni si arricchivano in altre zone la povertà dilagava, con le popolazioni native costrette a lasciare le proprie terre e a cercare di sbarcare il lunario come venditori ambulanti. Ed è così che molte donne di Ccaccaccollo erano finite a vendere bigiotteria a Crusco, ma nel 2005, grazie alla fondazione Planeterra per lo sviluppo sostenibile, queste hanno riscoperto il valore delle proprie tradizioni e hanno iniziato a commerciare vestiti di alpaca prodotti artigianalmente. Dopo uno sfortunato incidente dovuto a cause naturali che aveva portato alla distruzione del laboratorio-fabbrica di Ccaccaccollo nel 2007, questo è poi stato ricostruito, consentendo la rinascita del commercio di filati e la preservazione della tecnica di filatura artigianale per le generazioni future.
Oggi l antichissima tradizione tessile del Perù, che pure sopravvive nelle realtà artigianali sopra descritte, conosce anche una dimensione d alta moda, come testimonia la manifestazione
Perumoda che si svolge ogni anno a Lima, l evento più importante dell anno per tutta l industria della moda della nazione. La manifestazione raduna sia le aziende autoctone sia quelle straniere che importano i prodotti locali, ma la sua vocazione è quella di vetrina per gli stilisti peruviani emergenti. E ce ne sono. Qualche nome: Sumi Kujòn e Gerardo Privat, ingegnosa interprete della tradizione la prima e creatore di preziose collezioni dai materiali pregiati il secondo, e poi Ani Alvarez Calderon, uscita dalla Rohde Island School di New York e contaminatrice di stili e tradizioni diverse, e ancora Ana Maria Guiulfo, profonda conoscitrice della cultura e dell arte peruviane.
Sono pochi, solo sette migliaia, eppure la tribù dei Kayan Lahwi, anche conosciuti come Padaung, non manca di suscitare interesse e curiosità, specie agli occhi degli occidentali, a causa di una particolare tradizione: il cosiddetto allungamento del collo.  Questa tribù appartenente al gruppo Kayan, a sua volta un sottogruppo dei Red Karen, una minoranza etnica di lingua tibeto-birmana, è infatti nota per un peculiare accorgimento estetico adottato dalle loro donne, ovvero indossare numerosi anelli attorno al collo - in realtà una spirale d ottone - che causano una deformazione fisica che risulta, visivamente, in un collo straordinariamente lungo.  Questa caratteristica ha conferito loro vari soprannomi, da donne giraffa a donne cigno , ma sorprenderà forse sapere che in realtà non è il collo ad allungarsi, bensì le spalle a scendere e le clavicole a deformarsi a causa del peso degli anelli che viene progressivamente aumentato nel corso della vita della donna.  



Le origini di questa tradizione sono aperte a discussione, con teorie anche totalmente antitetiche, come quella per la quale gli anelli sarebbero dovuti servire a rendere le donne meno attraenti e quindi a ridurre il rischio che venissero rapite come schiave, e quella per la quale invece gli anelli servirebbero a rendere le donne più attraenti, esagerando un tratto femminile come il collo sottile.  Altre teorie identificano lo scopo degli anelli nella protezione dai morsi degli animali selvatici (protezione che potrebbe nel caso essere da intendersi tra il letterale e il figurato) o nella volontà di evocare una rassomiglianza con il drago, creatura importante nell immaginario della tribù.





Le donne che ancora oggi scelgono di continuare ad usare la spirale di ottone lo fanno per preservare l'identità culturale, considerando che comunque nel corso dei secoli gli anelli sono entrati a far parte dell ideale estetico della tribù.  Solitamente le bambine cominciano ad indossare la spirale di anelli intorno ai cinque anni e con il passare del tempo essa viene poi sostituita con altre più lunghe e pesanti.  L'adozione degli anelli sarebbe volontaria e non imposta, e a giudicare dal trend attuale sembra che questa tradizione sia destinata se non a scomparire certo a ridimensionarsi, con sempre più donne che scelgono di non far indossare la spirale alle bambine e di rimuovere la propria.





Questo avviene per varie ragioni: per farsi un idea della situazione va per prima cosa ricordato che purtroppo sul finire degli anni '80 il regime militare birmano e queste minoranze sono entrati in conflitto, ragion per cui molte tribù Kayan hanno abbandonato la Birmania e si sono rifugiate in Thailandia, dove nell'area di confine sono stati istituiti dei campi profughi per dar loro asilo.  Tra le tribù rifugiate, c'erano anche i Kayan Lahwi che a causa della peculiarità del loro stile hanno attirato sempre più turisti, spingendo il governo thailandese alla creazione di villaggi turistici - sempre nella zona di confine - una tappa frequente per chi viaggia in Thailandia e vuole dare un'occhiata da vicino alle donne di questa tribù, portando così nell'area un flusso monetario i cui benefici però non sempre ricadono sulle tribù.  Così oggi per quanto riguarda le comunità rimaste in Myanmar, è il governo stesso a scoraggiare l'usanza degli anelli, in un ottica di modernizzazione del paese, mentre in Thailandia, togliere gli anelli ha spesso la connotazione di un rifiuto dello sfruttamento a scopo economico della tribù Kayan Lahwi e delle consequenziali restrizioni alla libertà delle persone.



Rimane infatti controversa la posizione del governo thailandese nei confronti di queste minoranze, che vivono in una zona di confine senza cittadinanza e senza i diritti ad essa correlati.  È stato speculato che proprio a causa dei guadagni che i Kayan attirano, il governo abbia loro impedito di spostarsi in altri paesi che avrebbero voluto accoglierli. Nel 2008 qualcosa si è mosso e alcuni Kayan sono volati in Nuova Zelanda mentre altri si sono incamminati nello stesso percorso legislativo.
La città di Hoi An è situata nel Vietnam centrale, lungo il fiume Thur Bon, dove le sue case si specchiano a testa in giù. Nata come villaggio di pescatori, nel 1999 l UNESCO l'ha dichiarata Patrimonio dell Umanità.

Passeggiando per le sue vie, si ha la sensazione che il tempo si sia fermato: niente della città vecchia di Hoi An sembra esser cambiato rispetto al passato, quando la città era, grazie al suo vecchio porto, un importante centro commerciale, sopratutto negli anni tra il XVI e XVII secolo, quando era abitata da comunità cinesi, giapponesi, olandesi ed indiane. Proprio questa mescolanza di culture ha dato alla città il suo stile particolare, una commistione delle diverse influenze, come si può ben vedere nel caso del ponte giapponese collegato a una pagoda buddista, nel centro storico della città, ma anche più semplicemente nello stile architettonico delle abitazioni del quartiere vecchio: case con tetti in stile cinese e balconi in stile europeo e case colonnate di colore giallo, che ricordano lo stile coloniale francese. Sono inoltre riconoscibili le influenze giapponesi nella suddivisione degli spazi interni e così quelle cinesi nelle numerose lanterne rosse. Il centro è visitabile solo a piedi e gli sciami di scooter di Saigon e Hanoi qui sono off-limits, come anche le auto. Hoi An lascia la sensazione di essere un museo all aperto da esplorare a piedi o in bici, disseminato da antichi edifici, lambito da risaie che disegnano geometrie a perdita d occhio. Le vie sono ricche di botteghe e negozi dove si possono acquistare quadri, lanterne e le famose stoffe. La città sembra essere una calamita per i turisti che sono in cerca di storia, tranquillità, ma anche di magia. Ed è di notte che più si percepisce la vera magia di questa cittadina, che al calar del sole sembra davvero trasformarsi in un luogo magico fuori dal tempo, in particolare grazie alle suggestive atmosfere da universo fiabesco evocate dalle affascinanti lanterne illuminate. Queste meravigliose invenzioni sono fondamentali per un importante celebrazione: la festa della Luna, quando, nelle notti di luna piena, la città viene invasa da migliaia di lampioni artigianali. Ogni mese, il quattordicesimo giorno del ciclo lunare, il centro viene chiuso e la corrente elettrica viene sospesa dalle 18.30 alle 23.00 con lo scopo di far brillare queste lucciole colorate, realizzate con strisce di seta e asticelle di bambù. Le lanterne sono appese per le strade, fuori dai negozi, lungo i balconi. Sono leggere come palloncini e illuminano la notte con gentilezza, mosse appena dal vento.
Il periodo storico relativo al ruolo di dominazione Khmer sul Sud Est Asiatico è antecedente il Regno del Siam. Le opere architettoniche principali realizzate in quella che è l odierna Thailandia dai grandi conquistatori cambogiani e tramandateci fino ad oggi risalgono ad un arco temporale che si estende tra l inizio del X e la metà del XIII secolo. Il grande Re Jayavarman VII fece costruire nel cuore di Angkor il celebre tempio del Bayon con le sue possenti torri dalle quali giganteschi, enigmatici e misteriosi volti di pietra scrutavano l orizzonte in direzione degli sconfinati possedimenti dell Impero. Per consentire ai colossali e silenziosi guardiani di sorvegliare attentamente su tutte le province fu realizzata una fitta rete stradale che originava dal Bayon e conduceva alle città periferiche più strategiche. Tra queste, la Dharmasala Route era la più importante. Dopo aver attraversato le fertili pianure cambogiane in direzione nord-ovest ed aver raggiunto il Bantey Chhmar, il colossale monastero che il Re edificò in memoria del figlio caduto in combattimento, la strada si inerpicava tra le vette della catena del Dangkrek che delimita l altopiano superiore dell odierna Thailandia. Da lì a breve il percorso raggiungeva due gioielli architettonici edificati dai suoi predecessori: i monumentali templi del Muang Tam e del Phanom Rung. Costituito da un unica torre centrale con Mandapa e racchiuso da 3 possenti fila di mura perimetrali, il Phanom Rung torreggia imperioso alla sommità di una collina naturale la cui vetta venne livellata. La costruzione inizia molto probabilmente nell XI secolo sotto la dominazione di Re Suryavarman I. Nel XII secolo diviene la fissa dimora di Narendraditya, cugino di Suryavarman II che dopo una fulgida carriera militare decide di ritirarsi e dedicarsi alle attività spirituali. Tra tutti i monumenti tramandatici dai Khmer, il Phanom Rung è probabilmente il più ricco di sculture, di bassorilievi nonchè di incisioni in Sanscrito. Di queste ultime se ne contano ben undici! Una lunga scalinata sale il pendio e conduce fino al secondo muro di cinta che sul frontone propone un raffinatissimo bassorilievo di Shiva mentre con lo sguardo incenerisce Kama, il Dio dell amore.
Già dall  era preciclaiditica, gli abitanti di Sifnos sapevano che la natura aveva donato loro giacimenti di argilla di ottima qualità. Così, sfruttando questi ultimi, creavano utensili di ceramica, statuette o ornamenti per la loro vita quotidiana. Questa loro arte la conservarono e la migliorarono nel corso dei secoli, adattandola, di volta in volta alle condizioni culturali e sociali di ogni periodo. Nel XVII secolo ci fu il grande sviluppo economico, a cui seguirono la decadenza del secolo XVIII e gli eventi della nazione greca nel XIX. Nel corso di quegli anni, diminuì progressivamente la produzione dei tessuti di cotone e chiusero le piccole industrie tessili locali. Contemporaneamente, e mentre le colture agricole erano limitate, ci fu un aumento della popolazione, che causò un forte e pesante aumento della disoccupazione. Il problema fu risolto dagli stessi abitanti, da una parte con movimenti di emigrazione e dall  altra con lo sviluppo dell  arte vasaia. Quest  ultima trovò terreno fertile nell  abbondanza di abili artigiani e nella fonte inesauribile di materie prime (argilla, sole, acqua, cespugli). Fin dai tempi antichi gli abitanti di Sifnos si erano dedicati alla creazione di oggetti di ceramica per la casa, e principalmente di utensili per cucinare (tsikalia) e per trasportare l  acqua (brocche, orci); e per questa loro attività divennero conosciuti in tutto il Mediterraneo. Negli anni prima della liberazione dai turchi, anche per paura dei pirati, i laboratori di ceramica si erano sviluppati nei quartieri di Artemonas e dei vicini centri abitati. Più tardi però, con il ritorno della pace nell  Egeo, essi furono spostati nelle baie dell  isola, e soprattutto in quelle che erano protette dai venti del nord. Vathì, Platys Ghialos, Herronnisos, Kamares, sono alcuni dei posti, che sono diventati centri importanti della produzione della ceramica. Anticamente, gli artigiani che lavoravano in questi centri uscivano di casa il lunedì e vi facevano ritorno il sabato pomeriggio o la sera. I prodotti venivano caricati su grandi barche, per essere venduti in altre regioni della Grecia o all  estero. Già dal 1835, l  esportazione di ceramica era fiorente, come è riferito in un documento stilato dal console francese di stanza dell  isola. I laboratori di ceramica si dividevano in piccoli e grandi. Quelli piccoli erano a conduzione familiare e quasi tutti membri della famiglia vi lavoravano; invece, quelli grandi, per via della forte produzione avevano bisogno di molto personale. Tuttavia, col tempo, il numero degli artigiani aumentò tanto, che il suo numero divenne eccessivo per l  isola. Questo ebbe come risultato l  esportazione di manodopera artigiana altrove. Gli artigiani infatti, cominciarono ad emigrare piano piano in altre regioni, rimanendovi per brevi periodi o sistemandovisi definitivamente. Al principio si organizzavano in gruppi di due o quattro e partivano dall  isola amata in primavera, per farvi ritorno in autunno. Di solito si recavano nelle isole vicine (Paros, Naxos, Andros), dove trovavano dell  ottima alrgilla; organizzavano, così, il loro laboratorio, e rifornivano gli abitanti locali di tutti gli oggetti di cui avevano bisogno. Poi, in inverno, tornavano a Sifnos e si occupavano delle colture agricole. Altri si recavano ad Atene o altre regioni della Grecia per assicurarsi il pane quotidiano. La tradizione racconta che il primo artigiano vasaio emigrò ad Atene nel 1833. Tutti gli emigranti, comunque, incominciarono come lavoratori stagionali, ma alla fine si sistemarono definitivamente nelle regioni in cui si erano recati. Durante le sue ricerche, la scienziata, e amica dell  isola, Eleni Spathari Begliti, ha incontrato artigiani di Sifnos, oltre che nell  Attica, anche a Syro, Mani, Eraklio e Hanià di Creta, a Kolymbari, nella Calcidica, a Karisto, a Skopelos, a Mitilene, Tasso, Volo e altrove. La corrente principale di emigrazione, comunque si diresse verso le zone di Marussi, Ag. Paraskevì, Halandri e Kalogresa. Ad Atene, adattarono la produzione dei loro prodotti alle necessità locali. Così, prima dell  istallazione dell  impianto idrico e della comparsa di utensili da cucina in alluminio, venivano prodotti principalmente pentolame da cucina e orci per il trasporto dell  acqua da Marussi ad Atene. D estate, inoltre, la richiesta aumentava, così i vecchi emigrati assumevano i nuovi arrivati da Sifnos, i quali, a loro volta, si stabilivano anche essi in città. Questa corrente a senso unico portò alla riduzione del numero di laboratori nell  isola e al loro degrado. Tuttavia, lo sviluppo turistico di Sifnos, in combinazione con il ritorno di Greci e stranieri ai prodotti tradizionali, ha ridato vita a quest  arte che aveva già dato da vivere a generazioni e generazioni di Sifnos. In questo modo, abbiamo la possibilità, visitando l  isola, di trovare una grande quantità di oggetti di ceramica (orci, utensili per la cucina, cappe per i camini, e altre cose), fatti con argilla di Sifnos e dalle abili mani di artigiani di Sifnos.
Il Nord Africa è ampiamente raffigurato come una parte del  mondo arabo  o viene anche associato con il Medio Oriente, dando così luogo allo sfortunato equivoco che vede gli arabi come indigeni del Nord Africa. Eppure c'è una vasta popolazione di  non- arabi  in Nord Africa: i veri popoli indigeni della regione. Questi si chiamano Amazigh, Imazighen è il plurale, una parola che significa "popolo libero" nella lingua indigena Tamazight . La terra nativa degli Imazighen è una regione che si chiama Tamazgha, che si estende oltre i confini che comprendono il Marocco, l  Algeria, Tunisia, Libia, Sahara occidentale, Mauritania, Isole Canarie, e alcune aree d'Egitto, Mali e Niger. Per una serie di motivi ideologici e storici, oggi con tale nome si è soliti designare solamente coloro che, in Nordafrica, parlino ancora la lingua berbera (tamazight). Anche se varie fonti stimano questa popolazione con un numero di circa 30 milioni di anime, questa è una stima molto bassa, considerando il fatto che almeno il 60 % della popolazione marocchina si identifica come Amazigh, traducendosi in un numero di 18 milioni di abitanti nel solo Marocco. All'interno del gruppo etnico Amazigh, ci sono vari sotto gruppi regionali come i Cabili, i Rifians, e i Tamasheq, noti anche come Tuareg. Oltre i confini della regione di Tamazgha , si trovano altri gruppi indigeni del Nord Africa, come i Nubiani con le proprie lotte contro il colonialismo arabo. Nel 7 ° secolo dC , gli eserciti arabi della penisola arabica iniziarono a dare luogo alle conquiste musulmane del Nord Africa, invadendo la Tamazgha e assoggettando i nativi alla loro religione, imponendo la loro supremazia sulle spalle dei popoli colonizzati. A questo proposito si contano innumerevoli esempi di repressione nei confronti degli Imazighen e di violazioni dei diritti umani sotto i regimi nordafricani. In seguito a insurrezioni per l'autodeterminazione, un numero imprecisato di Tamasheq sono stati uccisi in massacri di rappresaglia.
Il Buddhismo è la principale confessione religiosa dello Sri Lanka. La leggenda vuole che Siddartha Sakyamuni Gauthama Tahatagata, cioè il Buddha storico, sia venuto tre volte a Ceylon e le sedici località in cui soggiornò sono le mete di pellegrinaggio più importanti del paese. Buddha scelse l isola quale paese in cui la sua dottrina era destinata a sopravvivere nella sua forma originale. E  in Srilanka che i discorsi del Buddha , trasmessi oralmente nel corso dei secoli dopo la sua morte, sono stati trascritti per la prima volta in pali, durante una riunione di monaci nel I secolo a. C., nel tempio di Aluvihare, vicino a Matale. Semplificando moltissimo, le basi del buddhismo sono da considerarsi le quattro nobili verità: il ciclo della vita (nascere, vivere, morire) è sofferenza la causa di questa sofferenza è data dal desidererare/attaccamento solo raggiungendo lo stato di assenza di desiderio si ottiene la vera felicità si arriva al Nirvana o illuminazione infine , per raggiungere questo scopo, occorre guardarsi dentro, dominare la propria mente e trovare la pace interiore; questo processo evolutivo è chiamato il cammino di mezzo. (vivere con moderazione) Il buddhismo di Srilanka appartiene dunque alla tradizione ortodossa e rigoristica del Theravada ( la dottrina degli anziani ) o Hinayana ( il Piccolo Carro). Il Sangha, l ordine monastico, è strutturato in maniera stabile e gerarchica. Le  dagobe , i caratteristici santuari a cupola, custodiscono secondo la tradizione relique del Buddha. I due centri religiosi più importanti di Sri Lanka sono Anuradhapura dove si trova il sacro albero del Bodhi e Kandy con il santuario che custodisce la Sacra Reliquia del Dente di Buddha. Nel mese di agosto qui si svolgono le feste della Perahera, con grandiose processioni notturne, illuminate dalle fiaccole, in cui sfilano elefanti sontuosamente bardati,  schioccatori  di frusta, danzatori, musicisti. Il Tempio del Dente a Kandy Festa buddhista di ogni mese è il Poya o Plenilunio, quando i fedeli si recano ai templi a pregare portando fiori, incensi ed altri doni. Il piu importante Poya è il VESAK, che rappresenta il culmine del calendario buddhista : si tratta , infatti, del mese della nascita , dell illuminazione e della morte del Buddha. In tutto il paese si organizzano  dansal  ovvero offrono gratuitamente il pranzo o la cena e le bevande a tutti i passanti (un'antica tradizione dei buddhisti di sri lanka Il giorno di plenilunio del mese di Poson (giugno) una suggestiva processione ha luogo a Mihintale, nei pressi di nuradhapura dove circa 2500 anni fa, il principe indiano Mihindu (il filgio del grande imperatore Ashoka) porto  personalmente il messaggio del Buddhismo, ed incotro  Tissa il re di Sri Lanka . I giorni di luna piena da dicembre ad aprile sono invece occasioni per ascensioni al Picco di Adamo, montagna dal carattere sacro.
Bisogna spingersi su a Nord, nella spettacolare e isolata regione del Kaokoland, per poter incontrare gli Himba, magnifica popolazione nomade che vive in comunità isolate nelle valli remote. Gli Himba si spostano seguendo la scarsa pioggia, alla ricerca di foraggio per il loro bestiame:più precisamente, questo compito è demandato agli uomini, mentre alle donne è affidata la cura del villaggio. Ogni insediamento Himba (onganda) è composto da più capanne (ondjuwo) edificate con rami e rivestite di terra impastata e lisciata con orina animale, disposte attorno ad un kraal centrale. Le tribù sono organizzate in clan con linea gerarchica femminile (omaanda), ed a capo di ogni onganda c'è una matriarca. La struttura sociale è estremamente complessa: ogni bambino Himba appartiene sia ad un clan patrilineare (oruzu) che ad uno matrilineare (eanda): ogni clan discende da un antenato comune, il cui mito è all'origine del clan stesso, ed ha i propri tabù, che riguardano il divieto di mangiare la carne di un determinato animale o la proibizione per le donne mestruate di mungere le vacche. Grande importanza nella cultura Himba riveste la cura dei capelli e l'acconciatura. I giovani maschi portano i capelli rasati con un solo ciuffo in mezzo alla testa: il ciuffo viene lasciato crescere con l'età e viene pettinato all'indietro in un'unica treccia (ondatu): raggiunta l'età del matrimonio (a circa 25 anni), i capelli vengono divisi in due trecce (ozondatu). Quando poi il giovane si sposa deve sempre nascondere i capelli con un berretto (ozondumbu) che si può togliere solo quando dorme ed in caso di lutto. Le giovani, invece, si fanno crescere i capelli che pettinano in due trecce rivolte in avanti, finchè, con la pubertà, possono sciogliere i capelli in tante trecce: da questo momento, possono avere rapporti sessuali. I capelli ed il corpo delle donne vengono spalmati di grasso e di ocra ed altre erbe aromatiche. Le acconciature delle donne sono molto particolari e indicano lo stato sociale: come detto, le due trecce sono riservate alle giovani, mentre le trecce cosparse di grasso ed ocra sono delle donne mature: la donna sposata aggiunge in testa un ciuffo di pelle di antilope (omarembe) che rivolta quando è vedova, e porta una conchiglia (ozohumba) fra i seni, proveniente dai mari dell'Angola e considerato un simbolo di fertilità. In particolare, questa straordinaria collana a doppio contrappeso dorsale (non ha equivalenti nel continente africano) attira lo sguardo del visitatore e può essere considerata l'icona del popolo Himba e, per estensione, della Namibia.
La Fondazione Pierre Bergé - Yves Saint Laurent ha trovato il luogo dove custodire la loro collezione, ovvero il nuovo Musée Yves Saint Laurent Marrakech. Il museo, aperto nel mese di ottobre di quest anno ospita l'incredibile collezione della Fondazione, comprendendo 5,000 capi, 15,000 accessori di haute couture, e decine di migliaia di schizzi e oggetti. La struttura -- che, con le sue tonalità terracotta, si fonde perfettamente con l'ambiente marocchino circostante -- è stata progettata dall'azienda di architettura francese Studio KO. Tra le altre cose, hanno realizzato anche la Chiltern Firehouse a Londra, luogo che probabilmente sarebbe piaciuto a Saint Laurent. Studio KO s'inspira alla fluidità delle linee curve e dritte dei lavori di Saint Laurent, e ha cercato di riportarle nella costruzione avvalendosi di forme cubiche adornate da mattoni. Dall'esterno la struttura sembra fatta d'intrecci di fili mentre all'interno è da scoprire come una giacca di haute couture -- presumibilmente di lusso. Il museo è adiacente al famoso Jardin Majorelle, e include una grande quantità di mostre permanenti, un auditorium e una libreria di ricerca. La collezione di libri include volumi sulla storia araba e andalusa, così come la cultura barbera e i lavori di Yves Saint Laurent. Pierre Bergé, compagno storico di Saint Laurent e presidente della Fondazione Pierre Bergé - Yves Saint Laurent ha detto in merito: "Yves Saint Laurent ed io abbiamo scoperto Marrakech nel 1966, e non l'abbiamo mai lasciata. La città ha influenzato profondamente la vita e il lavoro di Saint Laurent, in particolare nella ricerca dei colori. Gli architetti di Studio KO hanno condiviso la sua passione per Marrakech. La loro ammirazione per la regione e la sua cultura, come per il loro rigore artistico e intellettuale, ci ha fatto intendere che sarebbero stati gli architetti perfetti per questo progetto. Lavorano in modo pulito e ordinato e lo stile ricorda i lavori di Saint Laurent. Siamo lieti di poter sviluppar una visione per un progetto di tale statura, emblematico come l'opera di Yves Saint Laurent
- Jack Sunnucks -
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